Il canto del nuovo Elia
Bonaventura da Bagnoregio e il carisma francescano
Bonaventura da Bagnoregio († 15 luglio 1274) nacque nel piccolo borgo della Tuscia romana nel 1217. Nelle opere agiografiche che dedicò a Francesco d’Assisi egli stesso spiegò come l’origine del suo legame con il santo fosse dovuto al fatto che — ancora bambino — sua madre aveva fatto voto affinché questi intercedesse per lui, ammalatosi gravemente, e così fosse stato «restituito nel vigore della vita» (Legenda minor VII, 8).
Entrato nel 1243 nell’Ordine dei Frati Minori, completò gli studi teologici a Parigi, dove nel 1253 iniziò il proprio insegnamento universitario. Si era allora nel pieno del conflitto fra maestri secolari e mendicanti, scontro che di lì a poco finì per acutizzarsi ulteriormente a motivo anche della lettura che il francescano Gerardo da Borgo San Donnino (oggi Fidenza) dava degli scritti di Gioacchino da Fiore.
Secondo Gerardo, nella “terza età” della storia i testi gioachimiti avrebbero infatti sostituito il Vangelo di Cristo e i libri del Nuovo Testamento, con conseguenze radicali per l’istituzione ecclesiastica e l’economia di Grazia instauratasi con l’avvento di Cristo.
Quando nel 1257 Bonaventura fu chiamato alla guida suprema dell’Ordine, questo stava perciò attraversando una fase indubbiamente complessa. Inoltre, la “memoria” di Francesco generava all’interno della famiglia francescana discussioni in merito alla fedeltà dei frati all’esempio del fondatore. La prima lettera che il neo ministro generale scrisse ai frati risale a due mesi dopo la sua elezione. Se nell’Epistola de tribus quaestionibus, diretta a un maestro non ancora identificato, Bonaventura aveva difeso l’Ordine su tutta la linea, in questa prima lettera circolare egli non fece nessuna concessione: appellandosi più volte a precedenti disposizioni, alcune delle quali sicuramente emanate dal proprio predecessore, egli infatti si dimostrò in piena consonanza con lui nel chiedere a tutti i frati una vita realmente povera.
Nel Capitolo di Narbona del 1260 furono quindi approvate le nuove Costituzioni generali redatte da Bonaventura (in buona parte frutto di una risistemazione della legislazione antecedente, votata alla distruzione), al quale fu anche conferito il mandato di comporre una nuova biografia di Francesco. Quale nuovo ministro generale, Bonaventura dovette agire contemporaneamente su più fronti: da un lato, giustificando l’operato dei Minori nei riguardi del clero secolare con l’intento di stornare da essi ogni accusa di radicalismo gioachimita, dall’altro ricompattando l’Ordine, in particolare fornendo ai frati strumenti concreti per vivere correttamente la loro scelta religiosa, oltre che un modello di riferimento valido per tutti.
Indubbiamente, queste diverse esigenze finirono per influenzare la sua opera agiografica, anche se un simile discorso non vale solo per Bonaventura, ma — per quanto in misura via via diversa — per tutti gli agiografi francescani e per gli agiografi tout court.
Nel mettersi al lavoro per redigere la Legenda maior, egli avvertì le grandi responsabilità inerenti al compito affidatogli: nondimeno, seppe rivelare tutto il proprio talento teologico realizzando un ritratto di Francesco oltremodo efficace, in grado di offrire le necessarie risposte ai molteplici problemi — interni ed esterni — che travagliavano la famiglia minoritica. Il prologo dell’opera condensa in modo mirabile i tratti essenziali della figura del fondatore.
Segno e presenza di Cristo nell’ultima fase della storia, ripieno di spirito profetico, Francesco era venuto a preparare la via al Signore, che presto tornerà, chiamando gli uomini a penitenza. Egli è l’angelo del sesto sigillo, colui che imprimerà il segno del Tau sulla fronte dei servi fedeli; è un altro Elia, un novello Giovanni Battista: viene così esaltato il ruolo profetico-escatologico dell’Assisiate. Francesco è l’amico dello sposo, colui che segna una nuova tappa nella storia della salvezza, rinverdendo i prodigi operati dal Maestro divino.
La Legenda maior canonizza di fatto l’immagine di un Ordine ormai apertamente chiamato a un impegno pastorale nella Chiesa. Attento al presente e al futuro, più che al passato, con la sua opera Bonaventura offriva dunque ai frati un chiaro modello di riferimento, destinato in breve a divenire un modello esclusivo.
Nelle sue Collationes in Hexaëmeron il doctor seraphicus combatté la sua ultima battaglia: com’è noto, tra il 9 aprile e il 28 maggio 1273 tenne a Parigi una serie di conferenze/sermoni (ventitré in tutto) sulla falsariga dei primi capitoli della Genesi nei quali si raccontano i sei giorni della creazione, conferenze che ebbero un’eco vastissima. La nomina cardinalizia, poi la sua morte, non consentirono purtroppo al teologo di portare a termine il ciclo, né tantomeno di stenderne il testo per la pubblicazione.
Fortunatamente, però, ce ne sono rimaste due diverse reportationes, vale a dire i resoconti che ne fecero due diversi ascoltatori. Il dibattito sull’aristotelismo eterodosso era all’epoca vivissimo, e Sigieri di Brabante, il principale esponente dell’averroismo latino, era nel pieno della sua attività: ebbene, nei suoi discorsi Bonaventura si riferisce più volte all’errore di coloro che sostengono l’eternità del mondo, lasciando pochi dubbi sul fatto che proprio costoro fossero uno degli obiettivi principali, se non il principale, del suo argomentare; al centro delle sue preoccupazioni vi è dunque il successo mietuto dalla filosofia a scapito dello studio della Scrittura sacra, che guadagnava molti adepti all’interno degli stessi Ordini religiosi.
Intellettuale di gran classe, abile uomo di governo, Bonaventura fu anche — e forse soprattutto — un’anima infiammata di amore divino, capace di elevarsi fino alle vette della mistica: lo rivela, senz’ombra di dubbio, l’Itinerarium mentis in Deum, composto all’eremo della Verna nel 1259. Come ha scritto Papa Francesco «san Bonaventura arrivò ad affermare che l’essere umano, prima del peccato, poteva scoprire come ogni creatura “testimonia che Dio è trino”».
Egli «ci insegna che ogni creatura porta in sé una struttura propriamente trinitaria, così reale che potrebbe essere spontaneamente contemplata se lo sguardo dell’essere umano non fosse limitato, oscuro e fragile. In questo modo ci indica la sfida di provare a leggere la realtà in chiave trinitaria» (Laudato si’, 239). Il suo magistero si rivela così una vera profezia per l’uomo contemporaneo. (Osservatore Romano)
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